“Il passato non è morto: il passato vive tuttora in noi e con noi e ci accompagna e si manifesta nel talamo nuziale, accanto alla culla, attorno alla bara, nelle feste, nei giochi, negli spettacoli, in chiesa, per strada, nei campi, sui monti, sul mare, dappertutto. Vive e parla”.(Giuseppe Pitrè)
La tradizione popolare riguardo il dominio del sacro e del religioso ci conduce a re-interpretare molte circostanze, molte manifestazioni culturali e geografiche attorno a noi.
Per meglio spiegare questa dinamica che non vuole avvalersi solo delle modalità più intellettuali, pur restando rigorosa, ma cerca di avvicinarsi ad un mondo che sempre più si allontana da noi, riportiamo qui di seguito Eliade e Cocchiara che illustrano in modo chiaro e lineare quelli che sono i nostri principi animatori e i nostri obiettivi:
“Siamo in diritto di riconoscere validità eguale al documento che registra un’esperienza popolare e al documento che rispecchia l’esperienza di un’élite. Le due categorie di documenti sono indispensabili, non soltanto per ricostruire la storia di una ierofania, ma anzitutto perché concorrono a costruire le modalità del sacro rilevate attraverso questa ierofania. L’universo mentale dei mondi arcaici …si è conservato nei miti nei simboli, nelle costumanze che, malgrado degradazioni di ogni specie, lasciano ancora vedere chiaramente il loro senso originario. Rappresentano, in un certo senso, “fossili viventi”, e qualche volta basta un fossile solo a ricostruire il complesso organico di cui è residuo. …Sappiamo, per esempio, che, nel loro complesso, i gesti, le danze, i giochi infantili, i giocattoli, ecc. hanno origine religiosa: furono in passato oggetti o gesti cultuali. Sappiamo parimenti che l’architettura, i mezzi di trasporto (animali, veicoli, barche ecc.) gli strumenti musicali, cominciarono con l’essere oggetti o attività sacri. Si può pensare che non esista nessun animale o nessuna pianta importante che, nel corso della storia, non abbia partecipato alla sacralità. Sappiamo anche che tutti i mestieri, arti, industrie, tecniche, hanno origine sacra o assunsero, nel corso dei tempi, valori culturali. La lista potrebbe allungarsi passando ai gesti consueti (alzarsi, camminare, correre), alle varie occupazioni (caccia, pesca, agricoltura), a tutti gli atti fisiologici (alimentazione, vita sessuale), probabilmente anche alle parole essenziali della lingua, e così via.”(1)
“…. concorre a questa ricerca: la scienza delle tradizioni popolari; e vi concorre con i suoi documenti orali oggettivi quali essi vivono, perché le credenze e le superstizioni antiche durate in vita fino ad oggi possono con un cammino a ritroso condurci alla conoscenza dei miti e dei culti indigeni.” (2)
Un nuovo modo di far vedere il mondo lo suggerisce David Le Breton:
“L’esperienza antropologica è un modo per liberarsi dalle consuetudini percettive scoprendo altre modalità di approccio, per avvertire la moltitudine dei mondi che si nascondono nel mondo.
È una deviazione indispensabile per imparare a vedere: dà forma al “non veduto” che attendeva di essere portato alla luce e inventa modi inediti di gustare, udire, toccare, odorare, infrangendo le abitudini di pensiero sul mondo e invitando ad abbandonare i vecchi schemi di intelligibilità per ampliare gli orizzonti. È un invito a spingersi il più lontano possibile nel campo dei sensi e del senso, poiché percepire implica sempre una messa in gioco dei significati. È un richiamo ad esporsi a tutti i venti del mondo e a ricordare che ogni forma di socializzazione comporta una restrizione del campo della sensorialità. L’antropologia manda in frantumi il senso ordinario delle cose.”(3)
(1) Eliade Mircea, Trattato di storia delle religioni, Torino, Boringhieri, 1976 pp. 10-16.
(2) G. Cocchiara, Preistoria e Folklore, introduzione di A. Butitta Palermo Sellerio, 1978;
p. 42.
(3) David Le Breton, Il sapore del mondo. Un’antropologia dei sensi, trad. di Maria Gregorio,
Milano R. Cortina 2007; p. XIX.
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